“Parola di pappagallo”: sfatiamo un mito

I pappagalli non ripetono a memoria, ma conversano con logica

Quante volte abbiamo detto, o ci siamo sentiti dire “non ripetere a pappagallo”? Questo detto nasce dalla credulità popolare secondo cui i pappagalli ripetono le parole senza essere consci del loro significato. Alcuni decenni fa dei medici paragonarono la loro capacità fonetica a quella di una persona colpita da idrocefalia: secondo questi ricercatori i pappagalli erano in grado di pronunciare le parole ma senza dargli una collocazione logica a causa della loro particolare conformazione del cervello, che rispetto a quello umano si pensava essere privo dell’ area di Wernicke, cioè quella parte del lobo temporale le cui funzioni sono coinvolte nella comprensione del linguaggio.

Recentemente alcuni scienziati della Duke University (Durham North Carolina USA) hanno invece scoperto che esistono anche nel cervello dei pappagalli delle parti che regolano il loro linguaggio, chiamandole Nuclei (i centri del cervello che controllano l’apprendimento vocale) e Gusci (zone esterne dell’apparato cerebrale che sono comunque coinvolte nel processo). Dall’osservazione è emerso che i “gusci” sono relativamente più grandi nelle specie più abili a imitare il linguaggio umano. Lo studio, inoltre, ha rivelato che il cervello dei pappagalli è strutturato in modo diverso da quello degli uccelli canori e dei colibrì (che mostrano, a loro volta, doti di apprendimento vocale).

Ma la vera svolta nello studio del linguaggio dei pappagalli è stata data dalla D.ssa Irene Pepperberg, ricercatrice e professoressa dell’Università di Harvard, che studiando il suo cenerino Alex ha dimostrato che non solo i pappagalli sanno comunicare con logica e cognizione di causa ma che sono in grado di eseguire ragionamenti più o meno complessi e di riconoscere forme e colori. Alex, infatti, sapeva utilizzare più di 100 vocaboli, identificare colori, oggetti e materiali, contare fino a sette.

Questa loro spiccata peculiarità è visibile anche allo stato brado, dove ogni stormo crea un proprio linguaggio e all’ interno dello stesso, le coppie formano linguaggi comprensibili solo al proprio compagno. Ad esempio uno stormo di Amazzoni fronte gialla che vive a sud della foresta genera un dialetto diverso dalla stessa specie che vive a nord e diverso da quelle che vivono a est o ovest: in pratica hanno un linguaggio più complesso del nostro, uno unico per tutta la specie, uno comprensibile solo al loro stormo e uno comprensibile solo dalla coppia. Questa loro abilità è frutto di una evoluzione lunga 30 milioni di anni: nasce infatti come sistema di difesa dai predatori. Non avendo altri modi per difendersi, come ad esempio la mimetizzazione, hanno imparato a imitare il verso del predatore del loro predatore. Questo apprendimento avviene sin dal momento della schiusa e consente al soggetto di poter comunicare con altri pappagalli e anche con gli umani.

Ma come fanno i pappagalli a parlare senza corde vocali? Nei volatili, tranne in alcuni rari casi (es. cicogne, struzzi), c’è la siringe. Si tratta di un organo situato alla congiunzione tra la trachea e i sacchi aerei e all’interno di questa sono presenti i muscoli siringei, la cui modulazione tramite il passaggio dell’aria consente di riprodurre diversi suoni. Dato che come tutti i muscoli vanno mantenuti in forma, questo spiega perché i pappagalli spesso ripetono frasi e suoni appresi.

Tutti i pappagalli, dalla piccola cocorita al grande Ara Giacinto, sono in grado di apprendere e ripetere parole e frasi nel nostro linguaggio: la sola differenza tra l’Amazzone e il Cenerino con le altre specie, è che queste due riescono a usare una timbrica umana ingannando spesso gli ascoltatori, mentre le altre specie hanno una timbrica leggermente metallica.

I pappagalli apprendono per osservazione, quindi per fargli riconoscere il suo nome basterà indicarlo mentre lo si chiama: ad esempio – “Ecco dov’è Alex” (ovviamente utilizzado il nome che gli abbiamo dato). Lo stesso esercizio andrà fatto per far si che associ il nostro nome alla nostra presenza: apprenderà osservando la nostra reazione ogni qualvolta verremo chiamati. Per quanto riguarda altre cose, come oggetti o cibi basterà insegnargli il nome di ciò che abbiamo in mano – ad esempio “Alex, ti piace la carota?”, mostrandogli la carota in mano. Questa procedura si chiama etichettare. Quindi parliamogli normalmente, scandendo bene le parole e cercando di capire quelle che inventa per indicare cosa vuole in quel momento, come si fa con i bambini. Una lettura molto interessante a riguardo è il libro Alex & Me di Irene Pepperberg. E ora buona conversazione!

In collaborazione con Sergio Giovannetti
Esperto in animali esotici
Foto: Pixabay

 

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